Se tutti noi avessimo una Scala! (in casa)… ecco gli appunti al lettore

Se tutti noi avessimo una Scala! (in casa)…      ecco gli appunti al lettore

DI SALVO GERMANO

Il dieci marzo ultima replica del Ratto del serraglio di W. A. Mozart. La rappresentazione cade a venti anni dalla scomparsa del Maestro Giorgio Strehler, che è stato uno dei più grandi registi del ‘900, per la sua innovativa rimodulazione concettuale della regia critica, nel contempo sensibile ai meccanismi della comunicazione moderna, accreditata con profondo impegno civile nel contesto della modernità del suo tempo, e nel contempo l’occhio puntato all’eredità del Teatro d’arte, di cui ne è stato fautore, avendo fondato insieme a Paolo Grassi il Piccolo Teatro di Milano, e poi via via, sempre più impegnato nei numerosi allestimenti al Teatro alla Scala di Milano tra i quali uno tra questi è il Ratto. 

Perché la Scala ne ri-propone una delle edizioni più importanti che il Maestro triestino volle dedicare al Genio di Mozart con il celeberrimo Ratto del serraglio? Titolo originale: (Die Entführung aus dem Serail).

Come in molte opere, si narra la storia di un amore perduto e infine ritrovato.

Il galantuomo Belmonte (Daniel Behle, tenore) si accorge che la sua amata Costanze (Jessica Pratt, soprano) è stata rapita dal pascià turco Selim (Sven Eric Bechtolf, voce narrante) insieme a lei, la cameriera Blonde (Jasmin Delfs, soprano) e il  servitore Pedrillo (Michael Laurenz, tenore),

a fargli da guardiano nell’harem, l’infame Osmin (Peter Rose, basso profondo). A dirigere nel podio, è la bacchetta del giovane direttore Thomas Guggeis, talentuoso pupillo di Barenboim. La regia è ripresa da Laura Galmarini.

In realtà il tessuto narrativo è molto semplice ma il magico allestimento strehleriano si presenta come una delle opere più importanti della Stagione scaligera 2024, riproponendo la storica regia. Perché ri-proporre l’inossidabile  Ratto di Strehler? Questa risoluzione dovrebbe essere oggetto di riflessione per le numerose, moderne e bislacche regie di oggi, tanto in voga in importanti teatri italiani ed esteri, in cui lo spettatore esce dal teatro così come vi è entrato, nessuna riflessione, né colto da un rapimento estatico nel componetrarsi, nel trarre uno spunto riflessivo da ciò che ha visto. Anzi a volte, egli si trova smarrito, confuso, catapultato in una dimensione di tetro e abietto sperimentalismo fine a se stesso, che poco, ha a che vedere con l’esegesi drammaturgica. Strehler dovrebbe essere, io dico, paradigmato, studiato, non copiato, non plagiato, ma semplicemente il fil rouge di continuità nel processo evolutivo della storia del teatro italiano, pur tenendo presente i cambiamenti sociali e dell’estetica musicale sempre in itinere nella sua ineludubile erranza mediatica. Così come ne hanno mantenuta viva la continuità ideologica registi del calibro di Lamberto Puggelli e Orazio Costa.

In quella, della prima del venticinque febbraio, e conclusasi il dieci marzo, si intuisce chiaramente quell’intreccio di

pura poesia e canto, nella descrizione di un ‘700 al limite della incantagione  fiabesca, non però quello incipriato e damerino fatto tutto di grazia manieristica, ma proiettato verso lo sguardo dell’imminente  romanticismo dal facile strappo estetizzante, dal facile incanto attraverso il continuo dimenarsi tra la commedia dell’arte e la commedia borghese, nella semplicità della scenografia di Damiano Damiani, scomparso dieci anni fa.

Strehler giocando con l’incantevole succedersi delle ombre e con uno straordinario disegno delle luci, introduce i profil à la silhouette, una tecnica di ritratto che riproduce solo i contorni del viso, e così i personaggi si smaterializzano e materializzano sulla scena, a seconda delle situazioni, nella successione di recitativi, arie duetti, concertati, in un contesto scenografico dai profili architettonici leggermente orientali in cui il chiaro e lo scuro si mescolano tra realtà e finzione, nel fantastico e surreale gioco di ombre cinesi, nel cui fondale si staglia pure l’azzurro del mare e la luna nell’ultimo atto, ma il tutto sempre “magna cum parvis componere”, ovvero il fare tanto, con i mezzi più poveri, ma sempre con una visione moderna, in cui la narrazione esotica  è lontana da quella tangibile del divertissement,  dell’amore, del sospetto e del sorriso.

Niente è labile ed effimero perché pochi come Strehler hanno compreso la profondità della musica di Mozart, che dopo cinquanta anni dalla prima è più attuale che mai.

Del resto questo è Mozart: dramma e commedia, Genio e Disperazione, Sregolatezza e Apollineo che solo lui ci poteva trasmettere attraverso l’inconfondibile alito creativo, metà metafisico, metà più carnale che mai.

Salvo Germano

RispondiInoltraAggiungi reazione

redazione

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *