CI LASCIA IL GRANDE ROBERTO HERLITZKA: L’ATTORE DALLA PORTA ACCANTO

CI LASCIA IL GRANDE ROBERTO HERLITZKA: L’ATTORE DALLA PORTA ACCANTO

di Salvo Germano

IL GRANDE ROBERTO HERLITZKA: L’ATTORE DALLA PORTA ACCANTO

di Salvo Germano

All’età di 87 anni, lasciando un vuoto incolmabile nel mondo del cinema e del teatro, il cuore di Roberto Herlitzka cessa di battere in una torrida capitale devastata dagli incendi. 
Per chi lo ha conosciuto, amato e apprezzato, la notizia della sua dipartita lascia un tonfo al cuore.
Io sono uno di questi. Conservo ancora tra le mura della casa romana una vecchia locandina di un rimaneggiamento teatrale di un testo di Thomas Bernhard. È sicuramente un personaggio iconico di irripetibile caratura artistica. Vinse, tra le altre cose, il Nastro d’Argento e il David di Donatello per l’interpretazione di Aldo Moro in “Buongiorno Notte” diretto da Marco Bellocchio
Tale ruolo gli consentì di diventare popolare anche tra le nuove generazioni, che forse, non l’avevano visto recitare in teatro e negli sceneggiati televisivi. Il regista Marco Bellocchio, in una intervista ha dichiarato:

Herlitzka ha saputo interpretare un grandissimo uomo politico come Aldo Moro e posso dire che è stato all’altezza di quella grandezza.”

Uno degli attori più poliedrici della scena italiana, a cui sono stati affidati ruoli bislacchi e grotteschi ma resi magistralmente come Sangue del mio sangue, in cui l’attore interpreta una sorte di Conte Dracula, con una straordinaria allure di personaggio ironico sarcastico.  Sempre con un piglio di surreale realismo che lo rendeva suggestivamente icastico.

Il caleidoscopio dei personaggi da lui interpretati, durante la sua lunga carriera è vastissimo e al di fuori di ogni banale cliché.
Era dotato di un mirabile trasformismo attraverso cui, ogni personaggio  è sapientemente studiato con impareggiabile cesellatura e scavo psicologico,  analitico estremamente personale. 

Egli è, ora, Enrico IV o Pasqalino Settebellezze, ora Turi Cantalamessa con Mariangela Melato, scritto e diretto da Lina Wertmüller, tanto per citarne alcuni. Impossibile dirli tutti.

Due mesi fa se n’era andata la moglie, l’attrice Chiara Cajoli. Erano inseparabili e molto uniti, e come spesso accade a chi vive legami così intensi di tutta una vita, le è sopravvisuto di pochissimo.
Gli amici più stretti sostengono che si sia lasciato troppo andare in uno stato di abbandono, cadendo in un inesorabile abyssus abyssum invocat. Morte chiama morte.
Evidentemente, il suo, era un legame affettivo, senza il quale la sua vita non aveva più senso. 
E questa non è una grana che tocca solamente a personaggi pubblici, ma un grave problema sociale, in cui la solitudine, il peso della vecchiaia, vuoi della malattia, induce ad un percorso senza via d’uscita: il tunnel della depressione. 
Un grande del cinema, regista e scrittore come Mario Monicelli, minato da un cancro terminale alla prostata, nel novembre del 2010, a 95 anni, decise di togliersi la vita gettandosi nel vuoto dalla finestra di un ospedale romano.

La solitudine, la mancanza della sua dolce Chiara, aveva colto l’Herlitzka, uomo e artista nella ineluttabile fragilità di un io spezzato, da una perdita che forse non avrebbe mai elaborato.
La vita non è sempre degna di essere vissuta; quando finisce di essere vera e dignitosa non ne vale la pena e senza ricorrere a gesti estremi, a volte, ci pensa da sola la natura.
Un carattere mite, uno stile di vita normale, del vicino della porta accanto, lontano dal glamour del mondo del cinema, del red carpet.
Egli, come pochi, aveva saputo cogliere, nel cinema e nel teatro,  l’universale nel particolare, nel dettaglio, anche del nulla, nel nichilismo in cui piomba l’uomo, così come egregiamente descritto da Beckett, da Albert Camus, da Emil Cioran.

Ogni gesto, ogni lemma detto veniva colto nel significato più profondo ma terso, da creare affezione ed una immediata empatia con il pubblico. 
I tempi scenici erano quelli giusti, determinati da una scansione spazio temporale sospesa e di attesa, in un mirabile addivenire, quasi a richiamare Giorni felici di Samuel Beckett.

Le sue guance erano scavate da solchi riconoscibili, come la sua voce elegante, misurata, mordace ed estremamente moderna, piena di colori e ben modulata ma mai artefatta. Possedeva una ferrea tecnica interpretativa forgiatasi grazie ai suggerimenti  del regista Orazio Costa, all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico
Tecnica, mai esibita come espressione narcisistica dell’ego dell’attore, come spesso accade in tanti volti noti del teatro e del cinema; semmai per Herlitzka, essa, era il fine, non il mezzo per penetrare espressivamente il carattere ontologico del personaggio.
Mi riferisco anche ad una contestata edizione di Antonio Calenda al Teatrro greco di Siracusa.
Era il ’94 ed Herlitzka era il Prometeo di Eschilo
Abiti moderni, soluzioni registiche insolite, per quell’epoca e per un pubblico ancora non abituato del tutto al modernismo dei classici, e la tendenza alla tropizzazione del testo. 
All’inizio dello spettacolo il nunzio grida: “Quel fascista di Zeus.” 
Mariasantissima! si leggeva chiaro nello sguardo stupito e meravigliato del pubblico.
E inoltre Herlitzka  recitava chiuso all’interno di una pedana, facendo emergere solamente la testa che si dimenava, portando una bombetta. Chiaramente un richiamo al Teatro dell’assurdo di beckettiana memoria. Ma anche di Eugène Ionesco

Concludo esaltando la suggestiva e commovente lettura della Commedia dantesca di Herlitzka al Teatro Basilica. 

Lì, capisci veramente quando il verso, la parola si fa teatro puro, catarsi, e in essa, (parola) si incarna la verità sublime di chi non declama gassmaniamente il verso, ma il sublime di chi lo fa sgorgare dagli abissi degli eletti, e Roberto era uno di quelli. La cosa ammirevole è che Herltzka il verso non lo declamava ma lo diceva. In ciò ricordando più la tradizione anglosassone del dire che quella italiana, più accademica, del declamare.

Quando la luce è forte, l’ombra è più nera
Quanto mai vera la frase di Goethe. Ora che la tua luce rifulge nel firmamento delle stelle del Teatro, alla chiusura del sipario, tutto appare più sbiadito, ma quel (tutto) comunque rimane indelebile nel cuore di ciascuno di noi.

Grazie e che la terra ti sia lieve! Leggera come il respiro dei versi che dicevi. O semplice, naturale, una pioggia di polvere, come le battute che dalla tua bocca uscivano semplici, senza enfasi, fossero pure l’assurdità assoluta di un Beckett.

salvo germano

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *