IL MIO POLLINI

IL MIO POLLINI

di Salvo Germano

Ho colto la notizia della morte del pianista milanese, dall’ospedale dove da giorni sono in cura. Còlto da un moto di commozione, quasi alle lacrime, provo a delinearne al lettore, una concitata, ma suggestiva sintesi, di ciò che per me è, e ha rappresentato Maurizio Pollini dalla mia giovinezza ad ora.

 A 82 due anni si è spento il monumento più rappresentativo del pianismo internazionale.

Già da due anni malato, era stato costretto a revocare alcuni recital dopo un malessere al Festival musicale di Salisburgo.

Un pianista alquanto divisivo nel prediligere spesso il rigore logico e freddo (apparente) della letteratura, intesa nel suo significato più essenziale ed asciutto, senza cedere in superfetazioni di decadente sentimentalismo accattivante, quello piacente ad un pubblico di non expertes, abituato ad uno stile, come dire, “madame de Staël” che lui, ha sempre bandito: quell’aplomb di facile infingimento  sdolcinatorio, che obnùbila il pubblico, ammiccandolo, ingannandolo, con una esecuzione fuori dal rigore stilistico e costruttivo originario.

 Lo scavare “oltre le note,” la resoluzione filologica degli abbellimenti, le locuzioni frasali del linguaggio, la schiettezza ritmica arrivano all’osso, e questa, era la sua cifra, che lo ha contraddistinto.

A. Rubistein ebbe a dire: “sarà destinato ad essere il migliore di noi.” E così è stato.

Questi lunghi 50 anni gli hanno attribuito un successo straordinario in tutto il mondo, iniziando dal  Teatro alla Scala  di Milano, (dove ci sarà la camera ardente) esibendosi all’età di 16 anni e conclusosi, con uno dei suoi più recenti concerti milanesi, con l’esecuzione delle ultime tre sonate di Beethoven.

106 concerti solo al Piermarini, simbolo del più esclusivo club di intellettuali, artisti, impegnati al più rigoroso senso critico musicale, anche il punto centripedo dell’élite mondana, che durante la Prima di Sant’Ambrogio, accoglie le più alte autorità italiane ed estere con la tradizionale ripresa televisiva in eurovusion.

Oggi anche il presidente Sergio Mattarella ha espresso il Suo personale cordoglio per la perdita di un artista che ha fatto grande l’Italia.

 Ritorno a quell’ultimo famigerato recital tenuto alla Scala, alla chiusura del quale, qualche sedicente critico  chiosò, sia a mezzo stampa, che sui social, alcune  sbavature e piccole imperfezioni nei passaggi più impèrvi, sbandierandoli inopinatamente, senza riserbo, senza tener conto del momento di tenerezza contemplativa nella fragilità e della caratura di cui gode Pollini. Era già emaciato, stanco, arroccato nei  segni di decadimento fisico, eppur qualcuno, ha  storto troppo il naso, per qualche leggero appannamento in alcuni passaggi ostici.

È vero che il critico musicale deve fare il proprio mestiere; tuttavia in questo caso è stato leggermente inclemente ed impietoso nel non considerare la imponderabile difficoltà del ciclo finale delle 32 sonate per pianoforte create dal viennese adottivo, nel non tenere nel giusto conto l’approccio ultimo, dell’allora ottantenne, considerando un uomo non più sorretto dalla stessa grinta psicologica e struttura fisica, dalla ferrea concentrazione percettiva, tanto da non concedergli un piccolo peccato veniale.

 Non voglio annoiare il lettore, ma una piccola annotazione storico – formale è  necessaria per capire di che stiamo parlando.

La sonata per pianoforte n. 29 in Si bemolle  Maggiore, op.106 “Hammerklavier” di L.V. Beethoven, da Pollini, incisa superbamente più volte, con la casa discografica Deutsche grammophon, insieme alle ultime 3 altre sonate che completano il titanico ciclo sonatistico, rappresentano la summa più alta del patrimonio pianistico universale, in cui si concentrano orientamenti formali e stilistici attinti da epopee compositive sinfonico – corali, diversi, come, ad esempio, la IX sinfonia, detta Corale o in parte dalla Missa solemnis in Sol maggiore, che evocano i grandi affreschi di michelangiolesca memoria, concepite come immense costruzioni sonore, in cui si compenetrano stilemi antichi, relegati anche alla fuga bachiana, che Beethoven  innesta e rielabora  in un modo sinfonico nella disposizione delle parti polifoniche, appoggiandosi ad una portentosa armonia di accordi nei raddoppi di ottava, che conferiscono solennità e crepuscolare premeditazione.

Per la prima volta Beethoven pensa di inserire una fuga nella forma – sonata classica della sonata 106, forgiata, prima, in simplex, dalle mani di F.J. Haydn e da Mozart, con la consueta struttura:  esposizione – sviluppo – ripresa. A – B – A

Ma nelle ultime tre in particolare, il discorso si complica a dismisura, allocando il compositore maturo continue digressioni, interruzioni cadenzali,  ripetizioni di incisi variati e deroghe continue, all’impianto tonale inerente al consueto schema formale via, canonizzatosi  durante il periodo denominato Classicismo viennese. Insomma, non voglio tediare il lettore  ulteriormente con l’analisi delle forme musicali, disciplina che richiede studio di anni. E non è questa la sede, appunto.

Beethoven si spinge “oltre” e a quello, Pollini guarda e si è pronato: lo scavo profondo sin dal  primo debutto, che poi lo portò a vincere il più prestigioso Premio internazionale Chopin di Varsavia. Diciamo per i non addetti ai lavori, il Nobel della musica. Quella sonata, come dicevo prima, la 106, è una codificazione pensata e ridotta di una precedente composizione sinfonica, nel rispetto tuttavia, della originalità e privatezza del concepimento del più intimo strumento prediletto, il pianoforte, teso ad uno sforzo compensativo immenso, che richiede uno stato di concentrazione mentale sovrumano per il suo dominio.

 Si è sempre sull’orlo di un precipizio, quando una piccolissima  defallaians ti porta ad una sorta di corruzione strutturale e una tensione, che sembra venir meno, ad una resa che toglie, o potrebbe togliere, pathòs, ma ciò non avvenne di sicuro;  ma il il tanto chiacchierìccio mediatico, sì, di quel concerto scaligero.

Con questo dove voglio arrivare? Che  nell’oggettività  difficoltoria, in piccolissime frangie, del tessuto tecnico, l’interprete, non più abbordato dalla stessa  sicumera e brillantezza di un tempo, quella tempra tutta calcolata di Pollini, fredda, ma sempre tesa ad un discorso corretto con legati e staccati precisissimi, di un tocco cristallino da brivido, da me, mai sentito sino ad allora, e perché dopo l’ultimo concerto  completamente cassati da una inetta critica autoreferenziale? Ciò mi infastidì non poco, tant’è che a quel concerto c’ero anch’io che da umile spettatore pagante ne uscii ricco. Forse, tali pregi non emersero, nel complesso, perché non coadiuvati da una buona salute dell’ottantottenne: i podromi della malattia, che oggi ci annunciano una morte non tanta aspettata così prematuramente

Non sarebbe stato ragguardevole sorvolare sui peccati veniali? E valorizzare la grande impalcatura sonora che ha retto nonostante tutto?

E non mettere quasi alla gogna mediatica il musicista lombardo?

Il grande interprete non deve mai cadere neanche davanti alla scalata dell’Everest in cui nervi, concentrazione e memoria lavorano in sinergia!  Dico questo, perché il mio Idolo veniva impunemente intaccato da una critica, sì, esagerata e ferrea, ma inumana, dogmatica e insensibile.

Io quella esecuzione l’ascoltai, e in essa còlsi un senso di fragilità, sì vero!, che fu probabilmente, quella stessa fragilità che l’individuò Beethoven, durante il difficile corso della sordità, la visse in prima persona; le fragilità umane, dalla cui scaturigine si alza quel senso  di forza morale del dovere, tutto kantiano, di cui la sua Musica è pregna. Il dovere del Destino che chiama ad un ordine etico e morale.

Me ne dispiacqui con immenso dolore di questo sterile controcanto di bordone, per fortuna isolato.

Non posso dimenticare anche un episodio ormai lontano (forse avrei dovuto iniziare da questo molto bello di iniziazione, ma scrivo nel cuore della notte e il mio cuore soggiace ad una mesta tristezza anche ospedaliera che obnùbila la diacronia degli eventi) che risale ai miei studi di preparazione al Conservatorio, allorché studiavo privatamente, pianoforte col Maestro Carlo Zecchi.

Allora i concerti si tenevano al vecchio Auditorium di via della Conciliazione, la storica via che porta al colonnato di San Pietro; si annunciava il concerto del Maestro e la trepidazione di assistervi, era per me, inferiore alla possibilità di reperire un biglietto. Ricordo che la fila arrivava quasi a metà della via oltreteverina.  Era come trovare un terno al lotto per poter assistere al fatidico evento. Per farla breve ebbi il biglietto al mercato nero al prezzo raddoppiato, ma tra stizza e felicità prevalse, sine dubia, quest’ultima.

Programma di sala: il primo libro dal Clavicembalo ben temperato di Bach e tre Klavierstück di Stockhausen molto corti. Come il primo amore che non si scorda mai, quella esecuzione aprì finestre mai dischiuse, e capìi, in quale tempio di edificazione spirituale era  assurto il Maestro, ma soprattutto anche l’allievo sottoscrivente, al quale il lavoro di Bach a scuola gli era apparso un approccio piuttosto didattico, seppur consapevole della  sublime arte dell’Interprete e Autore, quella stessa intensa vena poetica trascendente,  quell’immensa tavolozza cromatica impressa in quel circolo delle 24 tonalità minori e maggiori, soggiogandole alla esplorazione di una incessante  ricerca, artistica e concettuale senza precedenti.

Le tonalità come centro ontologico della ricerca e non un vuoto speculativo fine a sé stesso. Mi si aprì un mondo da cui non mi sono allontanato.

Ho ammirato il  Pollini artista, intellettuale, che non ha mai vissuto la musica come qualcosa di avulso dalla vita, ma che ha al contrario determinato un impegno civile e politico, andando a suonare nelle fabbriche e nelle scuole, facendo conoscere Mozart, Brahms e Beethoven. Non lesinò aspre critiche neppure alla guerra del Vietnam, ma non si risparmiò nella diffusione dei suoi idoli, sottraendoli all’indifferenza generale e alla abitudine. Parlo di Arnold Schömberg, Pierre Boulez, e il suo amico fedele Luigi Nono.

Ci mancherà, mi mancherà, questo sacerdote laico del pianoforte che col suono particolarissimo, ha saputo superare il limite meccanico dello strumento a percussione, aspro, duro, dolce, flebile, potente nel suo vortice dinamico, che nelle mani del Maestro, rimane fermamente soggiogato a sé, in funzione di un suo logico e coerente ripiego interpretativo raro e irripetibile.

Fu l’antidivo, al contrario di un altro pianista eccelso, come il nostrano Arturo Benedetti Michelangeli, le cui vicende artistiche e private non lo sottrassero neanche alla critica più accreditata. (Il fisco, le tasse)

Ma si sa, al divo ci si deve contrapporre sempre il suo alter ego.

 Preferisco un Pollini che lontano da certa ostentata spettacolarizzazione, ha saputo imprimere nello spazio e nel tempo una incancellabile taratura artistica, che ha  fatto di lui un grande uomo, e, di un uomo, un grande artista, che ci è stato tolto al suon di una primavera vestita a festa di lutti e morti, che implorano rispetto e pace, invocando dall’alto, affinché gli artisti eletti dalla Grazia, diventino propulsori e catalizzatori ad effetto domino, per il bene di questo mondo in corsa verso il baratro.

Addio Maestro!!!

Addio Maestro!!!

salvo germano

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *